
Una proposta modesta

Mi piace bere e fumare, ma non ho il fisico. Mi piace scommettere, ma non ho mai un soldo. Mi piacciono le donne, ma non mi si filano. Mi piace il francese, ma con le lingue sono una pippa. Mi piace pensare che uno possa contare sulle proprie capacità, ma vivo in Italia. E se c’è una cosa che non sopporto, sul tema della meritocrazia, è quando si invoca il ricambio generazionale, quando si dice che dovrebbero essere tutti mandati a casa e metterci a loro posto dei trentenni, come ha fatto ieri ad Anno Zero Beppe Grillo. Io sono un trentenne, e ad alcuni miei coetanei non affiderei nemmeno le chiavi della cassetta della posta, figuriamoci il Paese. Renzo Bossi è meno che trentenne, e non aggiungo altro. Non nego che alla mia generazione sia stata negata la possibilità di dire la propria, sono il primo ad affermarlo, ma a volere un colpo di stato generazionale si proroga solo la cambiale: i trentenni di oggi sarebbero, tra trenta e quaranta anni, i sessantenni e settantenni di oggi, tali e quali. Qualcuno obbietterà che il mio ragionamento è fasullo, che ricamo su una generalizzazione necessaria per esigenze di esposizione, che in realtà si intendono i “giovani” capaci. E i vecchi capaci? Pensate davvero che ad essere esclusi in questi anni siano stati solo i cosiddetti giovani? Io penso che la meritocrazia non ha bisogno di nessuna altro metro che i meriti stessi, sesso e orientamento sessuale, estrazione sociale e appunto età, sono variabili di un’altra equazione. La lotta contro lo status quo deve essere improntata non a una mera questione anagrafica, che in pochi anni esaurisce il suo senso, ma ad una più estesa concezione di Pari Opportunità. “Da ognuno in base alle proprie capacità”, come diritto ma anche dovere, se poi ci aggiungi “ad ognuno in base ai propri bisogni”, viene fuori un vecchio motto del socialismo libertario che non sarebbe male rispolverare.
P.S. sul tema della “gioventù” mi esprimo anche qui
Buona parte dell’informazione si gioca alla roulette: ogni tanto la pallina cade su un numero, quel numero è una notizia come tante altre, è un fatto che accade ogni giorno da qualche parte, ma chi la racconta, se confeziona bene il prodotto, se sa colpire l’immaginario collettivo, la sensibilità pubblica, ma soprattutto se scommette al momento giusto, allora vince. E tutti cominciano a scommettere su quel numero. Vi ricordate quando l’Italia tremava per il rumeno stupratore? Sembrava che a compiere violenze carnali, in Italia, fossero solo i rumeni. Poi tutto finì, forse con il caso della Caffarella, in cui finirono al gabbio due poveracci che non c’entravano nulla, ovviemente rumeni. L’industria del sapere è come quella del vestiario, campa di mode: provate ad andare in libreria, forse troverete uno scaffale interamente dedicato a testi sui segreti della chiesa, del vaticano, sulle anime nere del cristianesimo, un filone che non ricordavate così fiorente. Ora guardatevi attorno, a destra e poi a sinistra, guardatevi alle spalle, ecco, dietro di voi c’è la montagna dalla quale sono rotolati giù quei sassi: la pila dell’ultimo Dan Brown. Oggi leggo sul Corriere di una donna morta dopo aver messo alla luce tre gemelli. E’ almeno la quarta notizia del genere che leggo dopo il caso di Messina. Poi un giorno, nessuno più ricorderà i casi di malasanità ostetrica, eccetto chi ne conoscerà uno di persona o chi legge i trafiletti di cronaca locale, ma negli ospedali, per negligenza o per disgrazia, mamme e neonati continueranno a morire allo stesso modo. E un altro giorno ancora, ritorneranno per magia in prima pagina, come torneranno gli stupratori rumeni, oh se torneranno! Torneranno i pantaloni a vita alta, le giacche a due bottoni e gli stupratori rumeni.
L’altro giorno mi è partito involontariamente un colpo di telecomando e mi sono ritrovato su X Factor, il format internazionale che ha l’obbiettivo di creare una nuova pop-star, o una cazzata del genere. C’è una cosa di quella visione che mi ha violentato: l’abuso della parola “emozione”. Dunque, io nella maggior parte dei casi aborro l’uso del termine in questione, per vari motivi che non vi spiegherò, e non ve lo spiegherò perché voglio in realtà parlare di un altro imperdonabile abuso linguistico. Vi siete mai chiesti perché associamo il muscolo cardiaco al sentimento noto come amore? Io sì, e finalmente ho scoperto perché. Bisogna tornare molto indietro, ai tempi di Ippocrate di Coo, quattrocento avanti Cristo. Ippocrate è stato il primo medico in senso moderno, a lui si devono i concetti di diagnosi e prognosi, lo studio anatomico sui cadaveri e addirittura la cartella clinica, anche se è più comunemente noto per il “giuramento”, un manifesto deontologico a cui si devono attenere anche i medici contemporanei. Il modello fisiologico di Ippocrate è noto come teoria umorale: lo stato psico-fisico del paziente è stabilito dall’equilibrio di quattro umori, la bile gialla, la bile nera, il flegma e il sangue. Ognuno dei fluidi ha sede in un organo e determina un temperamento: la bile gialla nel fegato e provoca la collera, la bile nera nella milza ed è responsabile della malinconia, il flegma risiede nel cervello e genera beatitudine e calma, infine il sangue dipende dal cuore e a lui si associano, come sappiamo, le passioni. Quindi la fortuna di tanti poetastri, nonché la forma di alcuni cioccolatini, viene decretata da una teoria priva di fondamento di 2500 anni fa. Ma anche l’associazione tra ira e fegato discende dalla medicina di Ippocrate. Ma c’è un organo che proprio non ce l’ha fatta ad affrancarsi, forse perché il temperamento che gli attribuiva Ippocrate è quello meno desiderato; la milza. Se immaginassimo un mondo in cui la milza rappresentasse per la malinconia quello che il cuore rappresenta per l’amore, dovremmo riscrivere la storia. Ma intanto cominciamo con le canzonette. Cercando su google scopro che almeno tre brani hanno come titolo “Malinconia” (uno di Luca Carboni, uno di Riccardo Fogli e uno di Califano), almeno uno di loro avrebbe potuto intitolare il brano come la sacca di sangue riposta nel nostro addome, superando così il problema dell’omonimia, mentre il brano del ventennio “Vivere senza malinconia” di Bixio, poi parodiato da Jannacci, diventerebbe “Vivere senza milza” che mi sembra anche un bel messaggio per chi ne ha subito l’asportazione chirurgica, decisamente da far vedere a uno specialista è l’“Azzurra milza” di Toto Cotugno, più poetica e misteriosa è la “Milza d’ottobre” di Dalla. Se poi ampliamo le proprietà biologico-semantiche dell’organo fino a comprendere il concetto di “tristezza”, la lista dei brani da riscrivere si fa ben più lunga; da quello che sarebbe anche un ottimo nome per una rivista medica, ovvero “Milza moderna” di Patty Pravo, al saluto che le rivolge il reuccio Claudio Villa con “Buongiorno Milza”, tormentato è invece Astrud Gilberto che si strugge in “Milza ti prego va via” (per giunta il verso “dipingerò la mia stanza di rosso prefigura probabilmente un cruento tentativo di asportazione in ambito domestico), e Biagio Antonacci sembra aver risolto il problema firmando “Ciao Milza”, e così ad libitum…
Quando studiavo non avevo una grande simpatia per Levi-Strauss – l’antropologo, non quello dei pantaloni, ho studiato sociologia, mica jeanseria – , soprattutto riguardo alla centralità della lingua e dei processi linguistici nella Cultura. Poi mi sono, almeno in parte, ricreduto. Avete presente quando state discutendo con qualcuno e a un certo punto non sapete cosa rispondere, e poi soltanto ore dopo vi viene in mente una battuta brillante come un cristallo di berillio e tagliente come un bisturi, ma ormai è troppo tardi per usarla? I francesi a questo “fenomeno” hanno dato un nome, più precisamente un’espressione, “l’esprit de l’escalier”, lo spirito delle scale, perché è la battuta che ti viene sempre quando ormai stai andando via, e sei per le scale -l’equivalente italiano dell’espressione francese è caduto definitivamente in disuso decenni fa-. Ora qualcuno che non conosceva l’espressione, o il francese, o che non ha letto il racconto “Budella” da “Cavie” di Palahniuk*, avrà alzato il mento e pronunciato a mezza bocca un “Aaah…”, è la reazione fisica al fenomeno appena verificatosi; associando un nome a quella che sembrava solo una nostra impressione nebbiosa, si ottiene un frammento di conoscenza condivisa e universale. Ora la mia proposta è questa; scegliete un termine in disuso, adottate un’espressione desueta, sfogliate i dizionari, cercateli su internet, scegliete bene, non fatevi intenerire da un musetto dal suono armonioso, puntate su un significato specifico che colma una lacuna semantica, non scegliete un termine che ha un equivalente nella lingua comunemente parlata e scritta (anche se i sinonimi puri sono rari). Avete scelto? Bene, ora prendete la vostra creatura e piazzatela nei vostri post, nei dialoghi quotidiani, non abbiate paura che il vostro interlocutore non vi capisca, se è davvero interessato a quello che dite si sforzerà di capirne il significato, pompando sangue nello zombie che avete riportato in vita, come il Babau che diventa più forte solo se si ha paura di lui. Non è un atto di restaurazione linguistica, è un piccolo atto rivoluzionario, la liberazione dei prigionieri della massificazione culturale.
Semi-digressione: Una delle polemiche più in voga in ambito linguistico, e a mio giudizio più sterili, riguarda i forestierismi; l’adozione di parole da altre lingue. Uno degli esempi più citati da chi vorrebbe la chiusura delle frontiere verbali è il puntatore da computer, da tutti conosciuto -in Italia e in buona parte del mondo- come “mouse”, mentre i cugini a ovest dei Pirenei lo chiamano “raton”, e i francesi “souris”, termini che indicano nelle relative lingue anche il più comune roditore, come del resto lo stesso termine in inglese. Avete presente i bambini? All’inizio usano poche parole per indicare più elementi del reale, due sillabe appiccicate, come “dada”, possono significare una marea di cose, poi crescendo si apprendono i termini specifici, e il glossario personale cresce di pari passo alla conoscenza del mondo; non vedo per quale motivo debba chiamare il mouse sorcio, topo, ratto, chiavica e via dicendo, quando nella mia lingua c’è un termine -d’accordo preso in prestito da un altro idioma, ma chi se ne frega, è sicuramente meno ridicolo dell’imposizione di un italico termine artificiale- che indica solo e soltanto quella cosa che sta sulla mia scrivania accanto al pc… oh scusate, al calcolatore personale.
Appendice: Ecco qualche prigioniero da liberare (o da salvare dallo stato di libertà vigilata) con la A (e con qualche ricamo personale):
Acqueruggiola: è la pioggia fitta e fine, innocua ma insistente. Acuzie: è l’apice di una malattia, il momento più critico. Afrore: la puzza di sudore, o comunque pungenti odori corporei. Allappante: dal gusto astringente, che dà sensazione di ruvidezza. Allure: portamento signorile. Ammazzasette: delinquente più sbruffone e millantatore, che pericoloso. Anartrico: a volte usato come sinonimo di muto, in realtà indica più specificamente l’incapacità di articolare i suoni fra di loro. Aprico: di un luogo aperto, soleggiato e panoramico. Atout: termine francese mutuato dal bridge e da altri giochi di carte, può indicare metaforicamente una “carta vincente”. Atrabile: nella medicina antica era considerato il fluido responsabile della malinconia e dell’ipocondria, più che sinonimo di malinconico e ipocondriaco, che alcuni dizionari gli attribuiscono, sarebbe interessante usarlo per indicare un’esperienza dolorosa, un “fantasma”, che genera disagio psichico.
* Mi pare che nello stesso racconto, quella canaglia di Palahniuk inventi un’espressione decisamente colorita e molto efficace; “carota nel culo”, per indicare un qualcosa che tutti hanno in mente ma che non può essere esplicitata perché troppo imbarazzante, facendo riferimento a una famiglia in cui il figlio adolescente è avvezzo ad ardite sperimentazioni sessuali.